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Scuola Primaria dell’Istituto Maria Ausiliatrice di Novara

“IOTIAMO capsula del tempo” è un progetto d’arte contemporanea, dove i giovani sono inventori del proprio futuro, attori protagonisti e futuri spettatori. Attraverso i laboratori creativi nelle scuole l’artista Antonio Spanedda raccoglie le testimonianze dei bambini che serviranno per la realizzazione di una traccia visiva e sonora che verrà conservata nella capsula del tempo fino all’anno in cui la capsula sarà aperta nella Scuola durante un grande evento dedicato.

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Il primo viaggio nel tempo

Il primo "viaggio nel tempo" è stato fatto con i bambini della Scuola Primaria dell’Istituto Maria Ausiliatrice di Novara il 20 novembre 2015. I bambini della 4A e 5A hanno partecipato con entusiasmo al primo Happening della Capsula del Tempo ed hanno lavorato durante l'anno insieme alle loro insegnanti per preparare un testo da lasciare come messaggio per il futuro 2045. Insieme a loro l’artista ha posato il primo mattone di questo progetto d’arte con la consegna della capsula alla Scuola di Novara sabato 21 maggio 2016 e nel prossimo futuro 2045 con l'apertura e un evento dedicato.

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Scuola Primaria dell’Istituto Maria Ausiliatrice di Novara

20 Novembre 2015 - 24 Ottobre 2045

L'attività nella scuola

I bambini della Scuola Primaria dell’Istituto Maria Ausiliatrice di Novara hanno partecipato con entusiasmo al primo Happening della Capsula del Tempo ed hanno registrato i loro video messaggi per il futuro 2045. Durante l’anno scolastico insieme alle loro insegnanti hanno scritto un messaggio di speranza per tutti noi. Essi credono ancora nell’amore, nell’amore per la vita, per i genitori, per gli amici. Sono attenti alle persone, alle diversità, all’ambiente ed essendo capaci di inventare nuovi linguaggi sono molto creativi.


L’ATTITUDINE ALL'ASCOLTO

di Eleonora Garavello, Curatore d'arte indipendente e museale; Direttore editoriale Juliet Art Magazine


L’attitudine all’ascolto è la qualità che muove l’opera di Antonio Spanedda, nei suoi incontri con i bambini, raccoglie i loro sogni e ne restituisce a noi un’esperienza, un vissuto, una personale quanto variabile visione del mondo. Nel suo guardare e nel successivo far vedere la complessità della proiezione di un presente nel futuro, sovverte un ordine precostituito che diventa altro, attraverso parametri non più virtuali ma reali, tutto si regge su coordinate minime, ma altamente rappresentative di logiche che l’arista indaga in modo sottile quanto acuto, con uno sguardo capace di una forte accentuazione umanistica. Analizzare, selezionare, ricomporre per riappropriarsi della propria umana centralità.
E’ gioco sottile e raffinato quello di Spanedda, analisi, previsione e attesa sono gli elementi che traspaiano dal suo lavoro, teso a cogliere possibili trasformazioni, mutamenti in grado di produrre situazioni d’interesse, connessioni, circuiti e paradigmi. S’innesta, con chiarezza, una creatività che conduce fuori dalla parte documentaristica del progetto per arrivare a una libertà interpretativa capace di inattesa ipotesi, di improvviso giudizio su un istante fragile ma capace di scardinare l’immobilità dello stereotipo della banalità.
Spanedda decodifica senza una sentenza definitiva e perentoria, ma indaga solo la bellezza di un’apertura di possibilità che ci consenta di abbandonare il superfluo per riappropriarci delle emozioni, quelle vere, e allora sì, così, viaggiare leggeri.


QUELLO CHE L’ARTISTA NON DICE

di Stefano Francoli, Vice presidente ACC associazione culturale creativa; Testimonial e ideologo del progetto artistico “IOTIAMO”


Ogni forma d'arte, a modo suo, è un viaggio nel tempo. Lo è per l'artista, che viaggia verso un tempo sconosciuto, nel quale spera di lasciare una sua traccia. Lo è stato per i molti protagonisti del passato che, dai ritratti monumentali alle sgualcite fotografie in posa, hanno usato l'artista come mezzo per perpetuare quello che avrebbero sempre voluto farci credere di essere. E lo è ancora oggi per l'orda di fotografi che dell'artista spesso non se ne fanno più nulla e cercano di immortalarsi quotidianamente, riconoscendo però nel loro intimo che il tempo continua a erodere, trasformare, cancellare. Con IOTIAMO 2045 Capsula del tempo, Antonio Spanedda ha coinvolto noi spettatori. Con un apparente dolcezza, ci ha lasciato intendere di essere con lui creatori dell'opera, per poi metterci prepotentemente davanti al problema del tempo. In questo esperimento si è fatto aiutare da un manipolo di bambini che hanno lasciato nella sua capsula un messaggio a loro stessi: da riaprire nel 2045 per vedere se le loro speranze avranno sorpassato la crudezza della vita; o se invece si saranno conformate al sottotono di coloro che la vita se la sono lasciata immaginare da altri.

Ma i bambini nell'opera sono di due tipi. Quelli reali che – come egli stesso testimonia – hanno messo a dura prova la sua consapevolezza; per l'enormità, ingenua e commovente, delle parole che hanno proferito, data forse solo a chi il futuro ancora non lo sa concettualizzare – E gli altri, quei bambini che come me non esistono più, che il loro 2045 lo hanno ormai oltrepassato lasciando alle domande molte lunghezze di vantaggio sulle certezze che credevano di avere.

In realtà Antonio Spanedda rivolge a tutti una considerazione ancora più brutale. Intanto chiede a se stesso se è riuscito con la sua opera a segnarci così tanto da far sì che nel 2045 non ci scorderemo né di lui né della capsula. E poi ci domanda se saremo davvero ancora tutti lì, artista compreso, a celebrare il futuro che si avvera. E volendo andare in fondo, ci chiede se i bambini che hanno riempito di gioia il cuore di quest'opera saranno ancora tutti con noi per raccontare i loro trent'anni spesi a realizzarsi. L'artista ci ricorda che l'eterno presente in cui si consumano le nostre immagini quotidiane, che lo si voglia o no, continua a erodere, trasformare, cancellare. Per la verità, io credo che Antonio Spanedda – il quale da amico sincero mi sono permesso di strapazzare un po' – ci sta chiedendo non chi saremo, ma chi siamo. Siamo davvero quell'identità solida unica e irripetibile che crediamo di rappresentare? Oppure non siamo che arbitrari intrecci di esperienze che si dissolvono in un'unica e collettiva esperienza. Detta così lascia l'amaro in bocca. A meno che non si pensi quanto è certamente più immortale del singolo un grande e unico individuo che dentro di sé porti le esperienze, le speranze, le storie di tutti noi.


STALAGMITI

di Cristina Barberis Negra, Scrittrice, Narratrice; Testimonial del progetto artistico “IOTIAMO”


Non ho mai fatto sogni a lunga scadenza. Nemmeno da bambina. Non era ancora il tempo dei prodotti a “lunga conservazione” e se volevi che qualcosa fosse buono, dovevi mangiarlo fresco. Sarà per quello che i miei sogni li ho sempre assaporati così, ad uno ad uno, cercando di farli stare il meno possibile nel frigorifero. Piccoli sogni snack, da sgranocchiare alla bisogna, che sognare troppo in lungo fa venire il vuoto allo stomaco, come un giro della morte sulle montagne russe. Quindi se da piccola mi chiedevi cosa avrei fatto da grande avrei potuto risponderti qualsiasi cosa. Ho certamente ambito a diventare ballerina e medico; ma sono certa di aver avuto anche dei momenti da maestra e da barista, durante i quali il mio povero vicino di casa faceva indistintamente da allievo e da socio in affari; di aver voluto fare la missionaria in Africa e il veterinario, la giocatrice di basket e la disegnatrice di vestiti di carta per bambole. Sognare “corto” è un po’ come riservarsi sempre un’altra possibilità per fare, prima o poi, un sogno lungo; come se il sogno della vita meritasse di avere più tempo, più spazio per essere realizzato. Sognare “corto” è prendersi il tempo per pensare bene a dove si vuole andare, per non buttare via quel sogno speciale che è l’avverarsi del proprio destino.

L’unico problema dei sogni “corti” è il tempo. Perché lui passa, malgrado noi. Passa e non te lo dice. E arrivi a un punto in cui un ultimo sogno non è più possibile e dovrai farti bastare quelli che hai fatto fin li. Mi viene in mente un cestino di vimini che lo zio di mamma trovò un pomeriggio tardi, rientrando dalla campagna. Lui abitava vicino a un piccolo monte, famoso per le sue grotte. Molti si avventuravano, e lo fanno ancora oggi, su quelle pendici per ammirare le formazioni calcaree che il tempo aveva cesellato nelle loro viscere umide. Entrare in quelle grotte era come entrare in un tempio dove la natura, in tutta la sua maestosa bellezza, andava venerata e rispettata. Ma quel cestino testimoniava che non tutti avevano cura di tanta bellezza; conteneva, infatti, diverse stalattiti e stalagmiti che un vandalo punteruolo aveva strappato al ventre della montagna. Purtroppo nulla c’era da fare per rimediare a quel gesto e dei devastatori non c’era traccia.

Lo zio portò a casa il meraviglioso tesoro e ci raccontò come l’acqua, in migliaia di anni, avesse costruito goccia dopo goccia quelle bellissime sculture naturali. Fuori erano rugose, ruvide e rossastre, come la pelle coriacea di certi anziani marinai che si consumano sulle banchine dei porti, ma dentro erano lucenti e lisce, vellutate al tatto e dai rilessi multicolore come l’interno di madreperla delle conchiglie tropicali. Era come se i millenni che avevano attraversato avessero scolpito, ferito e modificato solo l’esterno, lasciando loro l’anima pura e intatta delle origini, lo spirito temerario della prima goccia che gli fu madre. Se penso oggi alla bambina riservata, all’adolescente inquieta, alla ragazza sognatrice, alla donna indomita che sono, credo che siano custodite dentro ad una stessa formazione calcarea e che i mie sogni “corti” non siano altro che le piccole gocce cristalline di bellezza che le hanno nutrite. Nel 2045 sarò di certo una splendida stalagmite.